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Una nuova organizzazione può cambiare la nostra PA

Un anno e mezzo fa l’allora ministro per la Funzione pubblica (c’era ancora il Governo Draghi), Renato Brunetta, indicava in quattro milioni l’obiettivo del numero di dipendenti pubblici nel 2028. Più o meno mezzo milione in più in sei anni. Il Governo Meloni, da parte sua, in queste settimane, ha annunciato l’intenzione di procedere all’assunzione di 170mila nuovi dipendenti pubblici nel corso del 2024. Buoni (?) propositi di chi governa: annunciare l’allargamento della platea dei posti di lavoro pubblici (in verità la promessa del Governo attuale dovrebbe più o meno coprire solo il turn over previsto).

Dal canto suo pochi giorni fa l’Inps ha annunciato che tempo dieci anni l’esercito del pubblico impiego perderà circa un milione di dipendenti, pronti a transitare in pensione. Un terzo in meno. Infatti, 1,3 milioni degli attuali dipendenti di Stato, Regioni, enti locali (e simili) ha già compiuto 55 anni.

Incominciamo col dire che 3,5 milioni di dipendenti pubblici non sono tanti, in assoluto. La media Ue indica che il 16% dei lavoratori dipendenti hanno come datore di lavoro lo Stato (o giù di lì). L’Italia è al 14%. Non molto inferiore, ma inferiore. Ma di fronte a un colossale ricambio generazionale ogni azienda si pone un problema strutturale: non solo quanti, ma quali dipendenti servono? Domanda che dipende da un’altra: a che cosa servono i miei dipendenti?

Questa riflessione sembra interessare poco la politica, al netto di qualche proclama di buon senso: nella Pubblica Amministrazione ci vorrebbero meno esperti di diritto e più ingegneri, più esperti di organizzazione del lavoro e meno avvocati. Considerazioni che avrebbero bisogno di essere sistematizzate in un piano industriale. Ogni azienda privata definisce il suo fabbisogno di risorse umane in relazione alla sua mission e al suo piano. Aggiornare il perimetro di intervento della Pubblica Amministrazione sarebbe già gran cosa, per non doversi poi lamentare dei tempi di emissione di atti e documenti essenziali alla vita di cittadini e imprese (dal passaporto alla licenza edilizia).

Come ricordava Sabino Cassese, “lo Stato e la sua amministrazione sono stati per un breve tratto una forza trainante del progresso, l’hanno reso possibile provvedendo sia alla sua infrastrutturazione giuridica, sia alla sua promozione e regia. A un certo punto della storia unitaria, si è però verificata una divaricazione tra progresso civile-economico-sociale e apparati pubblici, e questi hanno preso una direzione diversa, diventando una forza frenante, piuttosto che propulsiva”.

Una Pubblica Amministrazione che frena il Paese è un problema serio. Irrinunciabile sarebbe porsi questo problema, prima di misurare quante assunzioni prevedere. Ovviamente è più facile (ma non scontato) commisurare il numero delle assunzioni pubbliche al consenso elettorale da riscuotere. Ma lo Stato non si fa funzionare così. E un modello aziendale per lo Stato sarebbe più che auspicabile. Necessario. Il ministro Paolo Zangrillo ha tutte le carte in regola per trasferire al suo dicastero le competenze acquisite nella sua carriera manageriale, come capo delle risorse umane in Magneti Marelli, in Fiat Powertrain e poi in Iveco.

Non sarebbe auspicabile leggere oggi che “Il lavoro burocratico è pessimamente organizzato, epperciò, sebbene le paghe siano modeste, la resa del lavoro è minima ed il costo enorme; ed opprimenti le imposte che i contribuenti debbono pagare per mantenere un ceto burocratico povero, malcontento, invidioso ed improduttivo. Finché si lascia immutata la organizzazione attuale, bisogna dichiarare che il problema è insolubile”. Luigi Einaudi nel 1919 scriveva così. Oggi, più di un secolo dopo, sono parole ancora troppo di attualità.

Fonte: Libero Economia