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Non è il divano ad attrarre chi rifiuta le offerte di lavoro

Non può essere tutta colpa del Reddito di cittadinanza (Rdc). Ogni volta che si registra una distorsione del mercato del lavoro, ecco che viene buono l’indice da puntare contro il Rdc. Quasi un tic, un riflesso condizionato. È ben vero che quando si ricevono 750 euro senza far nulla, l’idea di fare qualcosa può passare in secondo piano. Ma è anche vero che ci sono trasformazioni in atto non riconducibili alle spiegazioni più elementari. Negli ultimi tempi si registra una tendenza al rifiuto del posto fisso nella Pubblica Amministrazione (Pa). Un segnale che farebbe andare in tilt Checco Zalone e i suoi fortunati personaggi.

Eppure, dati alla mano, meno della metà dei vincitori di concorsi pubblici si presenta per sottoscrivere il contratto per la vita. Il posto di lavoro pubblico è stato per anni oggetto di una retorica consolidata sui vantaggi dell’inamovibilità. Nemmeno la spending review è riuscita a scalfire la durata eterna del rapporto di lavoro nella Pa. Ma sempre più candidati in Italia preferiscono dire “no, grazie” dopo aver vinto il concorso. Accade per diventare ispettore del lavoro o per essere assunto all’Inail, alla Motorizzazione civile o al Ministero dell’Istruzione.

Potrebbe essere un contraltare del fenomeno del momento, la “Great Resignation”. Un’onda lunga e impetuosa venuta dagli Stati Uniti, arrivata in Europa e in Italia un po’ smorzata, ma significativa. L’Inps nei giorni scorsi ha certificato più di un milione di dimissioni volontarie nei primi sei mesi del 2022 (oltre il 30% in più dello scorso anno). Molto è stato turn over, visto che nello stesso periodo si sono registrate 946mila nuove assunzioni. Questa inedita mobilità segnala che dopo la pandemia sembra che qualcosa sia cambiato nella qualità del rapporto che lega lavoratore e datore di lavoro. Il work life balance pretende più attenzioni. Ma né le “Grandi dimissioni”, né la diffidenza per il posto pubblico si possono liquidare con una banale preferenza per il divano.

Gli “sdraiati” di Michele Serra, di una decina d’anni fa, non rappresentano più una metafora calzante. L’apparente rifiuto del lavoro (tanto più se è posto fisso nel pubblico impiego) cela un nuovo approccio al lavoro, soprattutto nelle giovani generazioni, diciamo negli under 40.

C’è una voglia di crescita professionale e personale che il lavoro dovrebbe soddisfare. Motivazione, richiesta di formazione e aggiornamento continuo, e – perché no? – una pretesa di meritocrazia palpabile, misurabile. Una voglia di competizione che non rinuncia ai valori della persona, ma che disdegna le intermediazioni. Politica e sindacato non sono più apprezzati veicoli per far muovere l’ascensore sociale. Il nuovo equilibrio vita-lavoro richiede una maggiore personalizzazione, incompatibile con l’adesione a tessere e liste di accoliti.

Chi vuole lavorare vuole essere valutato per la propria capacità, non per l’arruolamento in questa o quest’altra camarilla. Una decina d’anni al vertice dell’Inps mi ha reso attento osservatore di prassi consolidate e vigilate dalla casta sacerdotale dei sindacati. Nel mio piccolo mi sono adoperato per ridurre a zero le raccomandazioni, a partire dalla dirigenza. Ai miei tempi i dirigenti si nominavano per i cv e per le schede di valutazione. Il manuale Cencelli delle sigle sindacali finì a lungo in soffitta. Sono certo che quel cambio di paradigma si sia confermato negli anni successivi, fino a oggi. Qualche boatos che mi raggiunge mi farebbe venire qualche dubbio, ma spero che si tratti di un gossip infondato.

Resta evidente che soprattutto nelle giovani generazioni si stia affermando – finalmente – un desiderio di disintermediazione che finirà per scalzare i residui della lottizzazione, che nel pubblico impiego finisce sempre per danneggiare il Paese.

Fonte: Libero Economia