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Pensionamento protratto dal 2027 congelato? Costa 200 milioni. Noccioline rispetto al “buco” lnps

Con il decreto atteso per il prossimo Primo Maggio dovrebbe essere deciso il congelamento del pensionamento “allungato” a partire dal 2027, che sarebbe dovuto scattare per effetto dell’innalzamento dell’aspettativa di vita certificato dall’Istat. Stando alla normativa vigente, al passo in avanti della speranza di vita si accompagnerebbe uno slittamento di 3 mesi per l’accesso alla pensione a partire dal 2027. Senza un intervento legislativo quindi, dal 1° gennaio 2027 lavoratori e lavoratrici potrebbero andare in pensione a 67 anni e 3 mesi. Bloccare lo slittamento dovrebbe costare circa 200 milioni. Per il bilancio 2027. Noccioline. L’effetto cumulato lo contabilizzeremo (lo contabilizzeranno i più giovani) negli anni successivi.

A ben vedere anche i 6 miliardi (e rotti) di buco – vero o non vero che ci sia – del bilancio Inps tutto sommato potrebbe essere considerato poca cosa, nonostante la polemica scatenata dal Civ (Consiglio di indirizzo e di vigilanza) dell’Istituto. Secondo l’organismo “sindacale” le operazioni di “saldo e stralcio”, decise nel 2024 (per applicare normative stabilite dal Parlamento tra il 2018 e il 2022) hanno portato all’eliminazione di crediti Inps per 16,4 miliardi, e hanno comportato “ulteriori oneri, pari a 6,6 miliardi”. Oneri che, fa notare il Civ dell’ente con una nota, “ricadranno in futuro sulle Gestioni dei lavoratori dipendenti, nelle quali vige l’automaticità delle prestazioni”.

Secondo presidente a tecnostruttura dell’Inps c’è un fondo di accantonamento che non creerà alcun effetto sui conti dell’Istituto. Lasciamo ai custodi dei conti decidere se preoccuparsi o meno. La polemica scatenata dal Civ, a trazione Pd-sindacato, ha un chiaro intendimento politico, contro il vertice dell’Istituto espresso dall’attuale maggioranza di Governo. Ma a prescindere dal torto o dalla ragione sembra poca cosa rispetto a una ormai consolidata abitudine a considerare l’Inps un bancomat per le contese politiche.

Tutte le operazioni condotte negli ultimi dieci anni in tema di previdenza e di welfare complessivo per il Paese hanno badato poco ai conti e molto alla distribuzione di benefici. Tanto paga l’Inps; dimenticando che i denari che arrivano nelle casse dell’Istituto sono proventi della contribuzione previdenziale obbligatoria (soldi dei lavoratori e delle aziende, per intenderci) e dei trasferimenti del Mef per le attività assistenziali. Quindi in questo caso soldi pubblici, e comunque derivanti, questa volta tramite tassazione, sempre dalle tasche dei lavoratori e dalle casse delle imprese.

Il problema demografico è serio – e il problema dei contributi non versati si inserisce in questo contesto demografico che continua a mostrare segnali preoccupanti per la sostenibilità del sistema pensionistico – ma verrebbe opportuna la parabola della trave e della pagliuzza. Fissarsi sull’eventuale “buco” provocato dai condoni previdenziali, tanto osteggiati dai rappresentanti Inps che fanno capo al Pd (che comunque li aveva votati in Parlamento) potrebbe rischiare di far perdere di vista le copiose “uscite” determinate dalla legislazione decisa, soprattutto nella scorsa legislatura dai due Governi Conte, sia nella versione giallo-verde (M5S con Lega) sia nella versione giallo-rossa (M5S con Pd e altri).

Solo qualche numero per rinfrescare la memoria. Prendiamo il reddito di cittadinanza: dal 2019 è costato alla collettività (tramite l’Inps) circa 9 miliardi all’anno, con controlli (Inps) inesistenti e con una distribuzione di risorse che non ha cancellato la povertà – nonostante i noti proclami di allora – ma in qualche modo ha sostenuto la candidatura all’Europarlamento dell’ex presidente Inps (“padre” del provvedimento), Tridico.

Ma se vogliamo stare più aderenti al tema previdenziale dovremmo fare i conti della progressiva corrosione degli effetti della cosiddetta Riforma Fornero del 2011. Al netto degli “esodati” – che produssero una correzione in corsa della norma mal contabilizzata al suo nascere: una dozzina di miliardi di costi aggiuntivi che a regime superano i 25 miliardi – le successive correzioni tra le diverse “quote” (da quota 100 in poi) per anticipare l’uscita dei pensionandi sono costate circa 50 miliardi (ameno).

Senza poi considerare – oltre ai numeri di bilanci che hanno lasciato insensibili i più, nonostante l’enormità dei conti – l’effetto giungla che si è rinnovato in tema di pensioni. Una giungla che diventa terreno ideale per avventurosi legulei, avventurieri improbabili e qualche ciarlatano di troppo. In questi giorni c’è chi aveva dato notizia di un vademecum compilato dall’esperto di un patronato, che individua 45 modi diversi per uscire dal lavoro, anticipando le regole della legge Fornero.

Fonte: Il Riformista