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Ora serve un progetto forte per le nuove privatizzazioni

Dal mar Tirreno – tra Civitavecchia e l’isola del Giglio – alla svizzera Davos: dopo quasi trent’anni è cambiata la “location” ma si torna a parlare con insistenza di privatizzazioni. Nel giugno del 1992 Mario Draghi, a bordo del Britannia, usò queste parole: “Un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante”. E aggiunse: “La decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato stabile”.

In rappresentanza del Governo dal “mandato stabile”, il ministro del Tesoro, Giancarlo Giorgetti, in questi giorni al World Economic Forum sembra abbia riparlato di privatizzazioni, per rassicurare il mondo finanziario internazionale che entro il 2026 – cioè prima che finiscano le risorse del Pnrr – l’Italia potrebbe mettere sul mercato gli ultimi gioielli di famiglia, per incassare almeno 20 miliardi di euro.

Una bella somma. Molti pensano che sia persino troppo ottimistica. A differenza del mercato aperto a bordo dello yacht reale inglese, quasi trent’anni fa, oggi le opportunità sono molto diminuite. Da vendere c’è molto meno. E molti bocconi, tra i più ricchi, sono stati già ingoiati dal mercato. Cosa resta? Dalle Ferrovie dello Stato alle Poste, questi sembrano i cespiti da cui si conta di realizzare i primi affari. Citate entrambe dalla premier Meloni, nel corso della conferenza stampa di inizio anno. Sul fronte bancario non c’è più di aggiungere altro, oltre al miliardo incassato dalla vendita del 25% del Monte dei Paschi. Ma ancora una volta, più ancora che dopo il Britannia, il grande rischio è che le operazioni di dismissione pubblica avvengano senza un disegno politico e industriale coerente e riconoscibile.

Ora, più di allora, sembra manifestarsi solo l’urgenza di fare cassa. La nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza dice che il debito italiano di qui al 2026 non scenderà: era previsto al 140,2% a fine 2023 al 140,1% nel 2024, appena mezzo punto più sotto (al 139,6%) nel lontano 2026, l’ultimo anno con gli assegni staccati grazie al Recovery Plan.

Mentre le privatizzazioni tornano alla ribalta, nell’agenda del Governo, si assiste tuttavia a qualche scomposto rigurgito di statalizzazione, non solo per recuperare il controllo sulle reti infrastrutturali, ma quasi sempre in aree di mercato dove la crisi offre più rischi che opportunità. Lo si è visto con la confusa operazione di Ita Airways (ex Alitalia), così come con gli sviluppi, altrettanto opachi all’ex Ilva. Lo Stato finirà per ritrovarsi azionista di maggioranza nell’azienda siderurgica, di nuovo piombata in una grave crisi produttiva e di mercato. La stessa azienda privata – ArcelorMittal – che in Italia se ne esce, lasciando lo Stato padrone di una crisi, in Francia investe poco meno di due miliardi di euro per rafforzare l’impianto produttivo di Dunkerque.

I nostri cugini d’Oltralpe sanno disegnare progetti industriali comprensibili, tracciando con decisione e ruvidezza (ne sappiamo qualcosa anche noi, durante le vicende Fincantieri) il perimetro dell’impegno statale e altrettanto chiaramente quello aperto al contributo privato. A casa nostra continuiamo ad assistere a progetti di privatizzazione che si accompagnano a incoerenti percorsi di statalizzazione, che finiscono per ribadire la sensazione che siamo solo impegnati a comprare tempo, in attesa di un finale già scritto e poco onorevole.

Fonte: Libero Economia