Europa, riarmo, Trump, globalizzazione, sostenibilità…Nel tempo delle grandi incertezze ci si rifugia volentieri nelle certezze assolute, nelle risposte che precedono le domande e le rendono inutili. Per conto mio preferisco continuare a farmi domande, piuttosto che cullarmi nelle risposte destinate a invecchiare in un attimo; come diceva tanti anni fa Eduardo Galeano: “Ora che abbiamo tutte le risposte, ci hanno cambiato tutte le domande”.
La discontinuità imposta da Donald Trump – tra dazi anti-storici e diplomazia distrutta in diretta tv – sta sollecitando molte risposte e poche domande. Soprattutto al di qua dell’Oceano Atlantico. La nostra Vecchia Europa dopo anni di torpore burocratico, rivolta a misurare i calibri delle zucchine o a legiferare sui tappi di plastica delle bottiglie, grazie a Trump (o per colpa sua) si è ritrovata a pensare alla propria sicurezza. Quella stessa sicurezza che, fino a ieri (anzi, fino a oggi), era garantita dall’adesione alla Nato, che ha più volte sollecitato i Paesi partner ad aumentare le spese di riarmo al 2% del Pil. Serve il doppio riarmo, un po’ per la Nato, un po’ in proprio?
La brutta storia dei dazi risolleva a livello internazionale un tema che gode di pessima stampa, magari a ragione: il sovranismo. Ognuno è padrone a casa propria, con buona pace delle necessità di relazioni internazionali e commerciali. Come dice papa Francesco, i ponti sono meglio dei muri, ma ci sarà qualche ragione se tante persone, in tante parti del mondo, sono alla rincorsa dei muri. Non basta liquidare ideologicamente la partita: la buona politica prima cerca di capire. Era il cuore del “Conoscere e deliberare” di Luigi Einaudi.
Se Trump viene eletto democraticamente sull’onda di una voglia sovranista, se in Francia l’unico modo per evitare di avere come presidente Marine Le Pen è quella di inibirla, se in Italia la maggioranza liberamente manifestata più di due anni fa premia il Centro-Destra (più o meno sovranista) – e a modo loro sono sovranisti anche i polacchi, non solo gli ungheresi del “cattivo” Orban – ci sarà un motivo. O no? Indaghiamolo, prima di liquidarlo come patologia.
La favola bella della decarbonizzazione – e della varietà delle sostenibilità – per l’Europa è stata un sogno a occhi chiusi. Quando le aziende delocalizzano e vanno a produrre in Cina – o dalla Cina alla Cambogia – si sottraggono all’energia da combustione, o semplicemente la utilizzano dove qualcuno è più diverso da noi?
Lo stesso potremmo dire per le nobili e doverose battaglie su “Inclusion & Diversity”. Siamo sicuri che donne e bambini non siano sfruttati nelle fabbriche del mondo, dove si producono prodotti di largo e larghissimo consumo – dall’elettronica all’abbigliamento – che poi l’Occidente (Europa compresa) utilizza a pieno regime?
È un po’ come l’atteggiamento dello struzzo italiano. Il volatile non è di casa nostra, ma la sua tendenza a nascondere la testa sotto la sabbia, quando la realtà è sgradita o fa paura, è largamente condivisa nel nostro Paese. Facciamo l’esempio del nucleare? Per decenni ci siamo inorgogliti per il referendum abrogativo, che ha frenato ricerca e investimenti, oltre a far crescere a dismisura la bolletta energetica, salvo poi accettare come logico e naturale, avere centrali nucleari appena oltre le Alpi, importando pure energia.
È un po’ lo stesso del Green Deal europeo. Una tesi ideologica fatta programma di governo e di Governi. Salvo poi accorgersi che anche grazie al Green Deal abbiamo rinunciato – a favore della Cina – allo sviluppo di tutta l’industria di filiera della produzione dell’eolico, e abbiamo accettato il diktat di Elon Musk – passato in pochi mesi da vate del futuro a inaccettabile servitore di Trump – che ha di fatto contribuito a scassare tutta l’industria automotive europea, che aveva fatto del diesel pulito – a esempio – un caso di eccellenza tecnologica e produttiva.
Parliamo di politica e di democrazia? Dopo decenni di dibattiti sul consenso e sulla democrazia diretta, con tutte le derive che portano forse agli eccessi dell’uno vale uno, accettiamo come fatto scontato che la campagna del riarmo europeo sia condotta da una presidente della Commissione europea che è stata selezionata dalle segreterie dei partiti presenti a Bruxelles, secondo la peggiore tradizione della Prima Repubblica italiana. Ci manca Marco Pannella e il suo sdegno contro la partitocrazia italiana. Oggi potremmo rivolgere la stessa accusa su su, fino a Strasburgo e Bruxelles.
Troppe domande? Preferisco queste alla confezione delle Faq, che producono risposte confezionate per ogni domanda prevedibile. L’importante è non fermarsi alla prevedibilità. Viviamo un tempo “disruptive”. Ci piaccia o no, il “cattivo vento” di oltre Oceano dovrebbe moltiplicare le questioni, invece di sedare tutto con le solite risposte, che peraltro non hanno mostrato una grande efficienza.
Fonte: Il Riformista