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Le riformette sulle pensioni non portano neanche voti

Per valutare i rendimenti della previdenza complementare la Covip – e non solo – ricorda sempre di non prendere riferimenti annuali, ma di ragionare su orizzonti temporali più coerenti con le finalità del risparmio previdenziale: almeno un decennio. Magari anche di più. È la natura stessa della previdenza, e della prestazione connessa, la pensione, a indurci ad avere uno sguardo proiettato sul futuro medio-lungo. Invece, come ogni anno, da sempre, assistiamo al tormentone della “riforma delle pensioni”. 

Ogni Governo, ogni maggioranza, ogni opposizione, ogni organizzazione sindacale – e ultimamente anche i vertici dell’Inps, che dovrebbe solo assicurare l’erogazione tempestiva ed efficiente della prestazione – ritiene di dover riformulare ogni anno le condizioni per accedere all’assegno di quiescenza. Con buona pace del buon senso. E soprattutto con un discreto disprezzo degli italiani che vorrebbero fare programmi certi, facendo i conti con quello potranno incassare al termine della loro carriera lavorativa. E con una particolare indifferenza nei confronti di quei lavoratori più giovani, sulle cui spalle si continua sempre a caricare il debito previdenziale.

Già, perché ogni riforma – vera o presunta – ha costi consistenti, anche se produce risultati meno che modesti. Tra quota 100, 102 e 103 il costo, anche se inferiore alle aspettative, ha sfiorato i 20 miliardi di euro. Se queste risorse fossero state investite per migliorare l’economia nazionale di quanti punti di Pil in più potremmo disporre?

Si dimentica spesso che proprio l’evoluzione del Pil, cioè l’andamento dell’economia nazionale, influenza direttamente il valore della prestazione finale della pensione. Meno ricchezza prodotta, meno redistribuzione previdenziale. Il “contratto” previdenziale si stipula tra lavoratori e Stato, e l’erogazione della pensione dipende da alcune variabili che influenzano l’andamento complessivo della comunità nazionale, a livello demografico (quantità di contribuenti e qualità del contributo versato nel tempo, quindi andamento delle nascite e aspettative di vita) e a livello economico. La rivalutazione del monte contributi dipende dall’attesa di crescita del Pil.

Invece, ogni anno, ogni esercizio di ingegneria previdenziale si concentra nella formulazione di scivoli per favorire e anticipare l’uscita: che si chiamino scalini, scaloni, salvaguardie, quote tutta l’attenzione della politica e dei sindacati è rivolta ad avvicinare il giorno della riscossione dell’assegno previdenziale. I conti? Se non tornano, pazienza. Ci penserà chi viene dopo di noi, o magari la prossima riforma, l’anno dopo.

La riforma Fornero, nata imperfetta come molte riforme – come ebbi modo di considerare quando ero presidente dell’Inps, inimicandomi a suo tempo la ministra – ha da poco compiuto dieci anni, e aveva l’obiettivo di dare stabilità ai conti. Ma in poco più di dieci anni ha subito una quindicina di interventi correttivi (tra salvaguardie e quote), che complessivamente hanno eroso tutto il risparmio (un’ottantina di miliardi) che si era prefissa di produrre per dare sicurezza ai conti dello Stato e certezza ai futuri pensionati. Questo piccolo grande dissesto prodotto a colpi di “riformette” predisposte per incassare qualche voto in più nelle urne, ha finito per favorire poche decine di migliaia di lavoratori che hanno beneficiato di una pensione anticipata a scapito dei loro figli e dei conti dello Stato.

Dividendo elettorale inesistente, perché chi ha avuto ha confermato che la gratitudine è il sentimento del giorno prima. Non si governa con la captatio benevolentiae. Si finisce solo per fare molti danni per tutti: sia per chi non sa con quale trattamento andrà in pensione l’anno prossimo, sia per chi non sa se avrà una pensione fra trent’anni.

Fonte: Libero Economia