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La cogestione coi magistrati paralizza gli uffici di Stato

Tra le tante considerazioni di buon senso che Sabino Cassese ha distillato in questi giorni – durante la curiosa polemica scatenata sul Governo per la sua intenzione di “limitare” i “controlli concomitanti” della Corte dei Conti – c’è quella che riguarda la richiesta dell’organo della magistratura contabile di chiedere “un tavolo di confronto con il governo sull’adozione di una legge”. Il presidente emerito della Corte Costituzionale si è stupito nel vedere adottata dalla Corte una “espressione che adoperano normalmente i sindacati nei confronti dello Stato”. E si è chiesto: “La può utilizzare quello che è uno dei più grandi corpi dello Stato? Se si accetta questo tipo di terminologia non si finisce per riconoscere che lo Stato è diventato una specie di aggregazione di corporazioni, di interessi e che quindi ha perduto ogni capacità di decisione?”.

Il polverone scatenato sul decreto del Governo sulla Pubblica Amministrazione, in cui si sottrae alla Corte dei Conti il controllo preventivo sugli atti del Pnrr, oscura un problema enorme: che vantaggio ha lo Stato nell’avere un magistrato della Corte in ogni organo decisionale della Pa? Non si evitano le inefficienze e spesso nemmeno qualche patologica devianza. La domanda potremmo estenderla anche a chi rappresenta la Ragioneria dello Stato nelle singole Asl. Questa sorta di cogestione di certo immobilizza e burocratizza ogni atto dell’Amministrazione, favorendo la logica dell’adempimento a scapito di quella del risultato. L’esperienza di tanti anni al vertice dell’ente pubblico più grande del Paese (e forse d’Europa) mi fa dire con serenità e convinzione che il ruolo del magistrato della Corte dei conti perseguiva obiettivi di condizionamento del potere amministrativo, senza caricarsi delle conseguenti responsabilità.

Come dice sempre Cassese: “Tutta la cultura mondiale sui controlli dice che i controlli non possono essere fatti a tappeto, ma devono essere fatti per campione”. Il controllo preventivo rischia spesso di costituire una limitazione dell’azione di responsabilità amministrativa in capo a chi – forte del consenso – si trova a dover compiere scelte e costituire atti conseguenti.

È un problema di efficienza, non di inevitabile necessità di bilanciamento dei poteri. Il nostro Paese ha vissuto una lunga stagione di diffidenza preventiva – alimentata da qualche caso di patologia amministrativa – che ha finito per equiparare l’illecito con l’opinabile. Ne sanno qualcosa i sindaci, tormentati dal rischio del reato di “abuso di ufficio”, che peraltro si dissolve in niente nel 90% dei casi, come ricordava qualche tempo fa il presidente dell’Anci, Antonio De Caro, esponente Pd, quindi certamente non incline a sostenere iniziative del centro-destra.

La questione non riguarda nemmeno la polemica ricorrente tra il vicepremier Salvini e l’Anac, i cui rilievi spesso sono premessa nelle indagini contro i sindaci. È solo il caso di ricordare che le attività dell’Autorità anticorruzione, in altri Paesi (come nella vicina Francia), sono svolti da agenzie governative, non da soggetti istituzionali terzi (come invece accade in Italia). Meglio? Peggio? Sicuramente nel caso francese si privilegia l’efficacia dell’azione amministrativa, lasciando alla giustizia ordinaria l’eventuale sanzione successiva degli eventuali illeciti.

I controlli non possono essere fatti sulla carta, ma devono essere eseguiti mediante ispezioni in profondità sulle attività da controllare. “Devono essere non di processo ma di prodotto – cito ancora Cassese per necessità e autorevolezza – non bisogna controllare come è stata fatta una cosa ma il risultato di quell’azione. I controlli preventivi e concomitanti nel nostro Paese sono una forma di cogestione, di esercizio di un potere”.

Fonte: Libero Economia