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Centri per l’impiego. Sarebbe giusto abolirli

Centri per l'impiego Sarebbe giusto abolirli

E se abolissimo i Centri per l’impiego? In Italia ci sono poco più di 500 sedi dei Centri per l’impiego sparse su tutto il territorio nazionale. Si stimano più di 8000 dipendenti. Altri 1800 se ne sono aggiunti dal primo di giugno, per pochi mesi: sono i “navigator” assunti per gestire l’incrocio di domanda e offerta di lavoro per i beneficiari del Reddito di cittadinanza. Un piccolo esercito, circa 10mila persone che riescono a intercettare più o meno il 2% dei rapporti di lavoro che si stipulano nel nostro Paese.

Qualche tempo fa mi sono permesso di suggerire che la regionalizzazione dei Centri per l’impiego avrebbe dovuto essere superata, magari affidando il loro ruolo per le politiche attive per il lavoro all’unico Ente pubblico che in Italia gestisce direttamente tutte le informazioni sul mercato del lavoro, incassando i contributi previdenziali ed erogando le prestazioni assistenziali, cioè l’Inps.

Si è preferito affidarsi un nuovo soggetto, l’Anpal, che nell’acronimo mostra l’unica parte buona di sé: Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro. “L’Anpal nasce con lo scopo di accentrare a livello nazionale le competenze in materia di politiche del lavoro. Il problema però – scrive Francesco Seghezzi di Adapt, uno dei soggetti più attenti al mercato del lavoro – è che non bastava il Jobs Act per fare questo, occorreva un esito positivo della riforma costituzionale che lo stesso governo stava portando avanti. Esito che si è rivelato negativo dopo il referendum del dicembre 2016 e che ha lasciato Anpal, e con essa le politiche attive del lavoro, in mezzo al guado. Si tratta quindi di uno stallo che ci accompagna ormai da quattro anni e che si sintetizza in una agenzia nazionale che non ha le competenze per esercitare pienamente il suo ruolo”.

Meglio chiuderla. Se già qualcuno molto autorevole ha suggerito di abolire l’Anpal, vista l’incapacità di attuare la sua “mission”, forse sarebbe il caso di abolire anche i Centri per l’impiego. Una struttura che intermedia meno del 2% dei rapporti di lavoro e che si vede sfuggire l’incrocio tra domanda e offerta per 350mila posti forse non ha più ragione di esistere. Tante sono le offerte di lavoro che non riescono a trovare candidati per acquisirle.

Uno scandalo nello scandalo, che ripropone il senso del Reddito di cittadinanza, provvedimento sul quale cala la scure dell’ideologia di chi era convinto che si potesse abolire la povertà. I 20 miliardi – poco più o poco meno – erogati indistintamente e senza controlli per il Reddito di cittadinanza non hanno cancellato la povertà, ma hanno finito per drogare il mercato del lavoro. E questo è il secondo grande problema connesso a questa misura preziosa per i veri indigenti, devastante se elargita come sussidio universale.

Da un paio d’anni, di questa stagione, esplode la denuncia sulla difficoltà di reperire lavoratori stagionali. Il conto del 2022 è stato fissato, appunto, per ora, in 350mila posti non occupati. A poco valgono, credo, le obiezioni sulle basse remunerazioni. Al netto delle patologie del lavoro in nero – che deve essere perseguito e denunciato – i redditi sono quelli collegati ai contratti collettivi nazionali. Delle due l’una: o il Reddito di cittadinanza è stato fissato a un livello eccessivo, rispetto alla contrattazione del lavoro, o le parti sociali nella loro libertà contrattuale dovranno aggiornare i minimi.

E allora aboliamo i Centri per l’impiego. C’è chi sarà pronto a stracciarsi le vesti sulla “privatizzazione” del mercato del lavoro, ma quando il pubblico fallisce occorre ammetterlo e soprattutto non far pagare alla collettività le sue inefficienze. Da troppi anni si ascoltano le lamentazioni sull’inesistenza delle politiche attive per il lavoro, in Italia. E da troppi anni si certificano distorsioni che fanno male alle imprese e alle famiglie oneste.

Fonte: Espansione