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I cantieri del Pnrr e la credibilità dello Stato

Senza dover promuovere o bocciare il Governo Meloni, una cosa si deve dire con chiarezza: i ritardi sulla realizzazione dei progetti del Pnrr non si possono imputare all’Esecutivo di centrodestra. Eppure, che ci siano ritardi è certificato.  “C’era una previsione di spesa al 31 dicembre di 42 miliardi: parlo di cifre ufficiali del precedente governo – ha detto recentemente il ministro Fitto – non di cifre opinabili. A settembre di quest’anno questo obiettivo è stato rivisto a 20 miliardi”. Ma solo 12 miliardi sono diventati cantieri. È un problema serio, che riguarda la credibilità dello Stato e delle sue Istituzioni e che impone al Governo una riflessione profonda e coraggiosa, che deve fare i conti la realtà del Paese. Anche la realizzazione dei progetti del Pnrr sconta l’Italia divisa in due. Dopo 160 anni di “unità d’Italia” dobbiamo ancora considerare che il nostro Paese si trascina una irrisolta “questione meridionale”. La “questione settentrionale” che negli ultimi decenni è stata sollevata – non senza ragioni – è in buona parte solo l’altra faccia della prima, incancrenita e inestirpata.

L’atterraggio dei programmi del Pnrr riguarda in gran parte la capacità di spesa degli enti locali (dalle Regioni ai Comuni), di cui è nota una efficienza territoriale assai differenziata.

E non a caso due priorità del Pnrr trasversali a tutti gli interventi previsti sono proprio i giovani e la riduzione dei divari territoriali nei diritti di cittadinanza. Il primo passo del percorso educativo, si scontra con un’offerta ancora profondamente disuguale sul territorio: solo il 59,3% dei Comuni italiani offre il servizio nido o altri servizi integrativi per la prima infanzia. Ma nel mezzogiorno questa quota – che è solo una media nazionale – scende al 46%.

Come è noto questa Italia a due velocità riguarda tutti gli aspetti della vita amministrativa e sociale. Se in media l’Italia riesce a spendere solo il 40% delle risorse dei Fondi strutturali messi a disposizione dall’Unione Europea, le Regioni del Sud fanno sempre peggio delle altre. A fronte di 47,3 miliardi di euro programmati nel Fondo per lo Sviluppo e la Coesione dal 2014 al 2020, alla fine dello scorso anno erano stati spesi poco più di 3 miliardi, il 6,7%. In Italia sono state censite 647 opere pubbliche non completate. In oltre due terzi dei casi, non si è nemmeno arrivati alla metà del lavoro. Il 70% di queste opere non completate è localizzato al Sud.

Al 2021, secondo i dati Istat, gli occupati in Italia in età compresa tra i 15 e i 64 anni hanno raggiunto il 58,2% della popolazione. Un valore medio ben lontano dalla percentuale dell’Unione Europea certificata dall’Eurostat: 68,4% nella fascia 15-64 anni. Ma in Italia la media è quella del pollo di Trilussa: nel Nord Ovest la soglia è quasi “europea” con il 65,9% e nel Nord Est addirittura il 67,2%. Al Sud gli occupati nel 2021 sono fermi al 44,8%.

Guardiamo ai Neet, cioè i giovani che non studiano né lavorano. Stessa divaricazione del dato. Nel 2021 sono stati il 32,2% al Sud e il 17,8% nel Centro Nord.

Difficile pensare a una Europa unita quando nemmeno uno dei grandi Paesi fondatori – l’Italia – non è riuscita a compiere la propria unità. In questo quadro ha ancora senso immaginare un dicastero con delega al Sud? Noi ancora dobbiamo pianificare per un pezzo del Paese “contro” l’altro. Prevalgono ancora le logiche di rivendicazione territoriale e di compensazione. Non basta nemmeno il ministero degli Affari regionali e della Autonomie per “sistematizzare” l’emergenza Sud all’interno del programma di crescita nazionale. L’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno e dell’Agenzia per il Sud non hanno coinciso con una capacità di visione integrata delle risorse per il Paese. E ancora dobbiamo progettare la crescita di una parte “contro” l’altra. Basterà il Pnrr per colmare il gap? O rischia di accrescerlo?

Fonte: Espansione