La data è fissata: l’8 e il 9 giugno si vota per i cinque referendum ammessi dalla Corte Costituzionale. Quattro quesiti riguardano la legislazione sul lavoro, in particolare viene proposta al giudizio degli italiani l’abolizione del “Jobs act”. E si tornerà a parlare dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un totem al quale è stato sacrificato tanto tempo e troppo inchiostro (sui giornali).
Il tema ha diviso per decenni partiti politici e organizzazioni sindacali. La legge del 1970, all’articolo 18, appunto, faceva (di fatto) divieto di licenziamento in tutte le imprese con più di 15 dipendenti. Nel caso di licenziamento illegittimo, c’era la «tutela reale», ovvero il reintegro obbligatorio nell’azienda. Con il Jobs act, in caso di licenziamento illegittimo entro i tre anni, il reintegro non diventa più obbligatorio e in caso di licenziamento si ha diritto solo a un indennizzo, da 4 a 24 mesi a seconda dell’anzianità (il governo populista targato M5S-Lega allargò l’indennizzo a 6-36 mesi).
Dieci anni fa, con coraggio, il Governo Renzi a trazione Pd, decise di rompere un tabù, sull’onda di un progetto riformista che aveva nel “modello Obama” il punto di riferimento. Con lo stesso nome, “Jobs act”, dall’altra parte dell’Oceano il Governo Usa introduceva molte novità. Nell’Italia del 2015, a torto o a ragione, tutta l’attenzione si fissava sull’abolizione dell’articolo 18.
C’era chi paventava un’ondata di licenziamenti e una diminuzione delle assunzioni a tempo indeterminato. È accaduto l’esatto contrario. L’occupazione non è mai stata così alta come in questi ultimi anni. Forse Giorgia Meloni ha esagerato nel fare un confronto con i tempi di Garibaldi, ma certamente il tasso di occupazione viaggia a ritmi quasi americani. Abbiamo superato i 24 milioni di lavoratori, le assunzioni a tempo indeterminato sono la maggioranza. E i licenziamenti non hanno fatto registrare sensibili variazioni.
Insomma, un piccolo grande successo per il mercato del lavoro. Eppure, c’è chi ha una voglia pazza di rimettere le lancette dell’orologio indietro di 55 anni: dal 2025 si tornerebbe al 1970.
L’iniziativa referendaria è stata promossa dalla Cgil. E potremmo non stupirci. Ma se la posizione della Cgil è discutibile, ma comprensibile, un sussulto in più potrebbe destare la posizione del Pd. In dieci anni, dal 2015 a oggi, il Partito democratico ha operato una inversione di rotta di 180 gradi: dieci anni fa il Governo Pd, sulla scia obamiana, lanciava la sfida riformista, mettendo in soffitta l’articolo 18; oggi lo stesso partito – sì, certo è cambiata la dirigenza, Elly Schlein non è Matteo Renzi, ma la gran parte dei notabili di allora sono nei ruoli dirigenti di oggi – rinnega tutto e chiede ai suoi elettori di votare per l’abrogazione del “Jobs act”.
Benedetto Croce diceva che “solo i cretini non cambiano mai idea”, ma si rivolgeva a qualche illuminato intellettuale, non a un’intera associazione politica. Alla Direzione del partito del 27 febbraio, la mozione Schlein (a favore dei referendum) è stata approvata all’unanimità. Insomma, tutta la dirigenza del Pd ha cambiato idea. Di fatto, citando Croce, sembra che non ci sia nemmeno un cretino nel Pd. Ed è una buona notizia, certamente. Forse meno esaltante – per chi fa attività politica – è verificare che il rapporto tra partito e sindacato si sia curiosamente invertito nel tempo. Negli anni Settanta la Cgil era accusata – dagli altri sindacati – di essere la “cinghia di trasmissione” del Pci nel mondo del lavoro. A Botteghe Oscure si dettava la linea, l’organizzazione sindacale “fedele” si preoccupava di declinarla in fabbrica e negli uffici. Oggi sembra avvenire il contrario: la Cgil definisce la linea politica (abolire il “Jobs act” e tornare alle regole del 1970 per il mondo del lavoro) e il partito si mette sull’attenti.
Fonte: Espansione