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Travolti da emergenze continue giustifichiamo la “mala gestio”

Travolti da emergenze continue giustifichiamo la "mala gestio"

La rivoluzione l’hanno fatta i francesi. Non si addice agli italiani. Da sempre abbiamo una capacità di sopportazione che è pari solo a quella di sottrarci alle regole. Chi ci governa può offrire le peggiori performance e in cambio riceve al massimo qualche improperio. Qualche pasquinata. Tutto finisce in qualche espressione verbale. Parole, parole, parole.

Travolti da emergenze continue – dal Covid alla guerra in Ucraina, fino alla siccità – consideriamo sempre tutto una giustificazione per la “mala gestio”. Di fronte alla crisi energetica, ingigantita dalla guerra, abbiamo considerato accettabile lo scambio tra pace e condizionatori accesi. In verità tutto si è fermato alle chiacchiere. Nessuna restrizione del condizionamento in questa estate rovente, nessuno scandalo per aver sentito una improponibile alternativa: la crisi energetica per l’Italia nasce da una serie di scelte mancate che ci hanno resi dipendenti da un unico fornitore, senza peraltro aver mai pianificato un’alternativa per le energie rinnovabili.

Le colpe del passato non ricadono mai su nessuno. Nemmeno su chi, nel presente continua a perpetuare lo stile delle non scelte. Vale per l’emergenza energetica. Vale per quella idrica.

Intendiamoci, l’emergenza è evidente e clamorosa. Ma la crisi idrica che si sta profilando ha qualcosa di intollerabile. Il razionamento dell’acqua è un provvedimento che ci farebbe piombare in una condizione innaturale prima che imprevedibile. E’ naturale limitare l’uso di un bene pubblico, quando chi lo amministra dimostra di aver fatto di tutto per preservarlo. Per l’acqua non è così. Non è mai stato così.

Come ricorda l’Istat ci sono già stati 11 Comuni capoluogo che negli ultimi tre anni hanno adottato forme più o meno rigide di razionamento. Tutti nel Mezzogiorno. Non vorremmo che qualche nuova “pecora nera” trovasse una scusa in più: l’emergenza siccità.

Nel 2020 in Italia è andato disperso quasi un miliardo di metri cubi d’acqua. Cioè il 36,2% dell’acqua immessa in rete (era il 37,3% nel 2018), con una perdita giornaliera per km di rete pari a 41 metri cubi. Il dato medio ci ricorda il pollo di Trilussa. Ma in un capoluogo su tre la dispersione d’acqua arriva al 45%. Le condizioni di massima criticità, con valori superiori al 65%, sono state registrate a Siracusa (67,6%), Belluno (68,1%), Latina (70,1%) e Chieti (71,7%). In nove Comuni, tre del Centro e sei del Mezzogiorno, si registrano perdite generalmente superiori al 50%.

Un disastro noto. Attribuibile alla vetustà degli impianti, prevalente soprattutto in alcune aree del territorio, e a fattori amministrativi, riconducibili a errori di misura dei contatori e ad allacci abusivi. Insomma, ben prima della siccità incombente, lo spreco di acqua è figlio di una cattiva amministrazione che nessuno sanziona e che tutti tollerano. E poi c’è una pessima programmazione infrastrutturale. Ogni anno in Italia “si perde l’89% dell’acqua piovana” come ha ricordato in questi giorni Coldiretti. Non solo.

Resilienza e sostenibilità potrebbero riguardare anche i progetti di agricoltura idroponica. Rispetto all’agricoltura tradizionale diminuisce fino al 90% il consumo idrico. E aumenta la produttività fino al 20%.

Il razionamento è una resa all’incapacità di reagire a una gestione colpevole delle risorse. Dieci anni fa, il 12 e 13 giugno 2011, si votò per un referendum contenente – tra gli altri quesiti – la proposta di abrogazione parziale della norma in materia ambientale che stabiliva la modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici e la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua. L’obiettivo dei promotori del referendum era impedire che la gestione delle risorse idriche fosse affidata ad aziende private. Vinsero nelle urne, ma forse hanno fatto perdere il Paese.

Fonte: Espansione