Lo smart working è sembrato per qualche tempo – durante il Covid e subito dopo la fine della pandemia – come la panacea per ogni organizzazione del lavoro. Dopo le necessità imposte dagli obblighi di distanziamento, e dopo la doverosa attenzione alla flessibilità dei lavoratori (se si può stare a casa, un giorno o due alla settimana, senza compromettere la produttività, ne beneficia sicuramente il work life balance), le grandi multinazionali americane hanno fatto una decisa retromarcia. In due anni si è passati dal 60% al 17% di lavoratori Usa in smart working.
A noi italiani piace invece surfare sulle novità, dimenticando gli obiettivi, cercando poi allegramente le scorciatoie che evitano di dare struttura e organizzazione al nostro lavoro. Lavorare vuol dire produrre beni o servizi che siano graditi ai consumatori (o utenti se preferite), nel rispetto delle esigenze di chi lavora, ma con l’obiettivo che è la soddisfazione del cliente, che paga il bene o il servizio.
Il concetto è chiaro nella buona e sana impresa italiana, che sa mediare tra i bisogni dei lavoratori e le esigenze dei consumatori (che poi sono sempre lavoratori che consumano…). La Pubblica Amministrazione, con la complicità delle organizzazioni sindacali, fa spesso confusione, anteponendo le richieste dei dipendenti (e di chi li rappresenta) alla soddisfazione dei cittadini-utenti.
In questo percorso della Pa si inserisce l’ultima incredibile decisione annunciata dal Comune di Roma, che ha prodotto l’entusiasmo della Cgil: più smart working per i dipendenti (non solo del Comune, ma per tutte le aziende che aderiranno al protocollo), per decongestionare il traffico nella Capitale e la pressione sul trasporto pubblico, allentando i disagi legati alle centinaia di cantieri aperti a Roma alla vigilia del Giubileo 2025. È la proposta avanzata dal sindaco Roberto Gualtieri, in qualità di commissario straordinario di governo per l’Anno Santo, alle organizzazioni datoriali e sindacali della città.
Insomma, lo smart working diventa uno strumento di “gestione del traffico urbano”! Lo smart working è una delle forme di organizzazione di lavoro che serve, sia all’azienda, sia al lavoratore per conciliare il tempo vita-lavoro. Utilizzarlo per risolvere un problema esterno a questo rapporto non serve a niente. Inoltre, crea un malsano differenziale tra i dipendenti che lo possono fare e quelli che, per il tipo di attività, non lo potranno fare (ad esempio nel Comune di Roma, la polizia municipale o gli educatori). Questi, quasi certamente, chiederanno almeno un ristoro economico per non poterlo fare. In ogni caso il problema vero è che non riusciamo mai a spostare l’attenzione sulla mancata misurazione della produttività dei servizi pubblici e quindi ognuno può dire tutto e il contrario di tutto.
Come e più di qualunque altra impresa privata, la Pa (nello specifico il Comune di Roma) dovrebbe preoccuparsi prima di tutto di soddisfare le esigenze dei suoi clienti-utenti, organizzando il lavoro dei propri dipendenti in modo da fornire servizi migliori, in meno tempo. La scelta annunciata per lo smart working “di massa” è invece rivolta a risolvere i problemi della Pa, della sua organizzazione: visto che non so organizzare i lavori pubblici, faccio stare a casa i miei dipendenti (e se posso anche altri lavoratori della Pa) per alleggerire il traffico, ammettendo fra l’altro l’ennesima sconfitta sul fronte del trasporto pubblico locale, dichiarato di fatto insufficiente e inefficiente.
Se poi i servizi erogati – dalla carta di identità elettronica a una banale richiesta di Scia per un lavoro in casa – si fanno attendere, poco importa. L’importante è far stare a casa i propri dipendenti. Produttività? Una chimera da lasciare nel mondo dei sogni.
Fonte: Espansione