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Sbagliato gridare allo scandalo sullo “spoils system” italiano

Il 24 gennaio sarà iniziato da due giorni l’anno del coniglio d’acqua, secondo il calendario cinese che fissa al 22 gennaio il proprio Capodanno. Per l’agenda della politica italiana sarà il giorno dello spoils system. Il “sistema delle spoglie” – ha origine negli Stati Uniti e riguarda quella pratica politica secondo la quale il vincitore delle elezioni ha il diritto di nominare un gran numero di funzionari di propria fiducia a capo degli uffici dell’amministrazione pubblica – è stato introdotto in Italia a fine anni Novanta con la legge Bassanini e aggiustato con la riforma Frattini nel 2002, e prevede il cambio di alcune figure di vertice dell’amministrazione dopo 90 giorni dall’insediamento del nuovo Governo.

A differenza di quanto avviene negli Stati Uniti però, nel nostro Paese lo spoils system non è generalizzato ma viene adottato per nominare solo alcuni ruoli apicali dell’amministrazione, come i capi di dipartimento, i segretari generali o i segretari comunali. Eppure, è motivo di un periodico tormentone, che in questi giorni è stato alimentato da qualche dichiarazione ruvida del ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha invocato il “machete” contro gli alti burocrati che si sarebbero distinti per la pratica del no e della perdita di tempo.

Molti politici, non da oggi, scaricano sulla burocrazia molte delle loro colpe. Come ha spesso rammentato Sabino Cassese – anche in questi giorni – la produzione di troppe leggi, spesso scritte male e contraddittorie, ha finito per far proliferare una “burocrazia difensiva” perché spesso confusa da un’applicazione legislativa incerta ed esposta a rischi civili, penali ed erariali che finiscono per ricadere sull’amministrazione e non sul legislatore.

Se il politico fa cattive leggi non dovrebbe lamentarsi di chi si trova nell’imbarazzo di applicarle. La “cattiva burocrazia” è quasi sempre figlia della cattiva politica.

Ma è altrettanto vero che il “change management” non dovrebbe incutere tanto terrore. Quando una società privata vede cambiare i propri azionisti, deve prevedere un cambio del consiglio di amministrazione e dei dirigenti apicali. Non si tratta di lottizzazione, ma di efficientamento in relazione ai programmi e agli obiettivi di chi ha investito risorse in un’azienda. Non si vuole fare un’analogia completa tra il settore privato e quello pubblico, ma dovrebbe essere meno scandaloso il fatto che, di fronte al cambiamento di indirizzo politico – che è qualcosa che almeno somiglia al cambio degli azionisti pro tempore – avvenga un mutamento dei vertici della dirigenza (nel pubblico così come nel privato).

Gridare allo scandalo della lottizzazione è fuori luogo. Almeno quanto è inopportuno il gioco dello scaricabarile compiuto dai politici contro la burocrazia. Due tic di una democrazia incompiuta, che non tollera il primato della politica o che lo impone anche dove dovrebbe bastare la logica del merito. Perché questo resta il tema fondamentale: è logico cambiare il management (il top management, beninteso) quando si condividono criteri e misurazioni di efficienza, efficacia e successo. Nel privato il faro è il profitto – oggi sempre più opportunamente mitigato dalla sostenibilità – nel pubblico deve prevalere la previsione costituzionale del “buon andamento” e dell’”imparzialità” dell’amministrazione.

Imparzialità vuol dire “neutralità”? Forse no. Ma certamente introduce un tema di “fedeltà” all’Istituzione e non alla parte politica di riferimento. Ai fedeli sono sempre preferibili i capaci e i meritevoli, a condizione che le capacità siano fedelmente dedicate all’Amministrazione, alla cosa pubblica, allo Stato e alle Istituzioni del Paese, a prescindere da chi vince le elezioni, ma con il rispetto di chi, conquistando il consenso, si trova nelle condizioni di provare a realizzare i programmi per cui è stato scelto.

Fonte: Libero Economia