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Perché serve un mercato del lavoro più semplice e leggero. Scrive Mastrapasqua

Entro la fine dell’anno, le imprese sono pronte a formulare poco meno di un milione e mezzo di nuovi contratti di lavoro, ma mancano i lavoratori da assumere, tra sussidi e reddito di cittadinanza. Si dovrebbe fare un radicale mea culpa per gli errori commessi

Mentre si parla sempre con fatica delle politiche attive per il lavoro – per i rinvii del ministro Orlando o per i distinguo delle Regioni – sembra essere trascurata la notizia che tra ottobre e dicembre, cioè in questi tre mesi che mancano alla fine dell’anno, le imprese sono pronte a formulare poco meno di un milione e mezzo di nuovi contratti di lavoro. Il Pil che cresce a ritmo del 6% riceve legittimi osanna, un incremento dei contratti del 29% (rispetto al 2019, non a confronto del 2020!) sembra destare poca attenzione.

Forse perché tra il dire e il fare ci passerà qualcosa, se non proprio il mare. A causa dei lavoratori introvabili. L’ultima edizione del Bollettino del Sistema Informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, mentre evidenzia questa clamorosa predisposizione delle aziende italiane a trovare nuove risorse, denuncia ancora una volta che si attesta complessivamente al 36,5% la quota di assunzioni per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento (+5 punti percentuali rispetto a ottobre 2019), soprattutto a causa della mancanza delle figure professionali ricercate dalle imprese. Complessivamente, il mismatch sale al 51,5% per gli operai specializzati, al 41,8% per le professioni tecniche e al 40,6% per i dirigenti e professioni intellettuali e scientifiche.

È il mantra dell’estate che si amplifica nell’autunno della ripresa. Il lavoro c’è, mancano i lavoratori. Si continua a pagare l’incoerenza strategica di un Paese che preferisce assistere anche chi non ne ha bisogno (reddito di cittadinanza) o che preferisce pagare il peso di una cultura ostile all’impresa. O che insegue un modello di formazione totalmente avulso dalle esigenze del mercato.

L’alternanza scuola lavoro tentata nel 2015 è stata smontata come se fosse il male assoluto; almeno quanto l’idea di coltivare il cosiddetto apprendistato duale. Riproposto oggi nel Pnrr e per anni aborrito dalle stesse forze politiche che oggi accettano di cambiare strada, senza ammettere di avere sbagliato nell’immaginare scuola e lavoro come mondi incomunicabili, per evitare che l’una fosse contaminata dall’altro. Il risultato è che sul mercato del lavoro si cercano inutilmente diplomati in Its: il 52,6% è introvabile. Come, a livello superiore, risultano “introvabili” i laureati in ingegneria industriale, e quelli in elettronica e dell’informazione (58% e 52,8% rispettivamente le difficoltà segnalate), i candidati con una istruzione tecnica superiore o con una formazione tecnica professionale (49,4%). Fra gli indirizzi di più difficile reperimento le imprese segnalano i diplomati in indirizzo elettrico (57,2%), indirizzo edile (54,8%) e indirizzo meccanico (53,1%).

A segnalare le maggiori difficoltà nel reperire sono le imprese metallurgiche e dei prodotti in metallo (52,9%) difficoltà che sale al 64,1% per il recruitment di fabbri ferrai, costruttori di utensili e assimilati e al 61,9% per i fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori carpenteria. Elevato anche il mismatch segnalato dalle imprese delle costruzioni (48,7%) soprattutto per artigiani e operai specializzati addetti alle rifiniture delle costruzioni (61,5%), e dalle imprese dei servizi informatici e delle comunicazioni (47,8%) per cui le maggiori difficoltà si incontrano per specialisti in scienze matematiche, informatiche (61,7%) e per tecnici informatici, telematici e delle telecomunicazioni (54,3%).

Si dovrebbe fare un radicale mea culpa per gli errori commessi nella costruzione dei percorsi dell’istruzione superiore e della formazione. Gli stessi errori che si riverberano nell’immobilismo dei Centri per l’impiego, che potrebbero utilmente produrre esperimenti finalizzati a questa nuova coniugazione scuola-lavoro, ma che evitano di farlo per inerzia o incapacità.

Il futuro del Paese non parte da un Pil che rimbalza, ma da un mercato del lavoro riformato e alleggerito, semplificato e guidato dalle esigenze delle imprese.

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