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Per riformare le pensioni deve cambiare il lavoro

Per riformare le pensioni deve cambiare il lavoro

Silvio Berlusconi ha sempre il pregio di essere diretto per farsi capire da tutti. Ha proposto mille euro per l’importo della pensione “minima”. Altri rilanciano formule meno trasparenti – quota 41, secondo l’ultima formulazione della Lega, che pare gradita anche al M5S – o si affidano a interventi apparentemente più tecnici (come è accaduto per l’ape sociale o l’opzione donna), spesso utilizzando il sindacalese di Cgil-Cisl-Uil che continuano a ribadire che la legge Fornero deve essere superata.

Insomma, il tema delle pensioni è tornato a essere protagonista della nuova (e largamente inattesa) campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. Anche il premier dimissionario, Mario Draghi, sembra intenzionato a prevedere un mini-intervento sulle pensioni: l’anticipo dell’indicizzazione a ottobre, per le prestazioni medio-basse.

Per lunga frequentazione del tema rimango dell’idea che proporre continue riforme delle pensioni sia una iattura in sé, a prescindere dalle soluzioni suggerite. Purtroppo l’argomento viene proposto come scorciatoia programmatica per confondere le idee e per catturare facili consensi. Non da oggi. Pensiamo alla follia delle baby pensioni – negli anni della Prima Repubblica – che ancora costano più di 4 miliardi l’anno e che difficilmente trovano un “padre” che se ne assuma la responsabilità. L’intero sistema politico sottoscrisse uno dei più temerari programmi di redistribuzione di ricchezza, che, come accade spesso, finì per beneficiare chi meno ne aveva bisogno.

Il sistema a ripartizione – su cui si regge il complesso meccanismo della previdenza italiana – crea un patto generazionale (di fatto) che impone ai lavoratori in attività di pagare le prestazioni dei loro padri (e nonni) con i contributi obbligatori derivanti dal lavoro. Il patto si regge finché è lecito supporre che lo stesso possa accadere per i figli dei figli. Di generazione in generazione. Gli aggiustamenti strutturali – l’ultimo a firma di Elsa Fornero – devono tenere conto dell’evoluzione demografica, della trasformazione del mercato del lavoro, e della condizione economica e finanziaria complessiva del Paese.

Per dirla con una espressione “anni Settanta”, le pensioni non possono essere considerate una “variabile indipendente” nel mondo del lavoro (al netto delle formule assistenziali), e tantomeno dovrebbero essere utilizzate a fini elettorali. Le soluzioni di riforma dovrebbero essere figlie di una trasformazione del mercato del lavoro, di un intervento robusto sulle retribuzioni (da cui dipendono i contributi) in parallelo a una riforma vera del cuneo fiscale che affossa redditi e competitività.

Manca da anni una visione strutturale del problema. Quella suggerita dalla riforma Fornero ebbe il pregio di “mettere in sicurezza” i conti (e non è poco) ma lasciò sul campo una transizione irrisolta e onerosa (le “salvaguardie” con i loro strascichi di compensazioni legittime o meno) che bruciò sull’altare dell’Europa (la famosa lettera Draghi-Trichet dell’agosto 2011) una mancata riforma del mercato del lavoro.

Non ci può essere riforma delle pensioni senza mettere mano con coraggio al mondo del lavoro e alle sue regole, fino alla sua fiscalità e al suo peso contributivo. I contributi obbligatori (necessari per alimentare il sistema a ripartizione) in Italia sono tra i più alti al mondo, comprimendo di fatto le risorse destinabili alla previdenza complementare di cui spesso tanto si parla, dimenticando la sua originaria debolezza. Il Governo dimissionario – è giusto dirlo – non ha fatto nulla per indirizzare la riforma del mercato del lavoro, lasciando ora di nuovo liberi tutti (partiti e sindacati) di buttarsi su presunte riforme delle pensioni per condizionare il voto di settembre.

Fonte: Libero Economia