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Non siamo un Paese per chi fa impresa

Non siamo un Paese per chi fa impresa

C’è uno spirito contrario all’impresa che aleggia da anni nell’opinione pubblica italiana. E nei Palazzi del potere. Sarà un po’ il mammismo statalista che contrassegna il buonismo italico, sarà il combinato disposto di quel catto-comunismo che ha governato a lungo il Paese e i luoghi della redistribuzione sociale e politica, ma resta il fatto che la libera iniziativa imprenditoriale non conta molti “amici” nel nostro Paese.

Parafrasando un film dei fratelli Coen si è detto più volte che l’Italia non è un Paese per giovani. E forse è vero. Un Paese dove fioriscono i lacciuoli burocratici, o i “colli di bottiglia” come direbbe Renato Brunetta, non è adatto ai giovani, ai nuovi talenti, a chi vuole provare, a chi conta ancora sulla meritocrazia. Le stesse ragioni per cui potremmo dire che l’Italia non è un Paese per chi vuol fare impresa.

C’è una traccia comune che unisce la cultura dell’imprenditorialità e quella che favorisce l’impegno dei giovani: la libertà di iniziativa e di intrapresa, appunto. Quando ci si concentra a creare ostacoli si finisce per allontanare giovani e imprese. In una parola: si sceglie di evitare il lavoro, alla faccia della Repubblica e dei suoi fondamenti costituzionali. Il lavoro, che campeggia alla base del primo articolo della nostra Carta, ha rischiato di essere sostituito dalla parola “lavoratori”, durante i giorni della Costituente. La storia recente ci dice che fu Amintore Fanfani a suggerire l’espressione che fu poi approvata: “fondata sul lavoro”. E’ il lavoro che accomuna impresa e lavoratore, capitale e risorse umane, competenze tecniche e finanziarie. Quando si separa questa unità nascono le follie ideologiche. Nascono e rinascono.

L’ultimo segnale che allarma è quello della proposta – che viene da una iniziativa del Governo, ahimé, come si legge in una nota del Mise – di limitare o impedire le delocalizzazioni “aggressive”. Quando fioriscono gli aggettivi o gli avverbi in una norma di legge non è buon segno. Si cerca di fare spazio a una moralità opinabile qualificando quello che dovrebbe essere un fatto, quindi un verbo o un sostantivo. Che cos’è una delocalizzazione “aggressiva”? Solo per definirla, fioriranno commi e addendi e serviranno decreti interpretativi. Tutto quello che non serve allo spirito di impresa, che per definizione intraprende, opera, produce, non disquisisce. Considera lecito tutto quello che non è vietato. Animal spirits che hanno bisogno di certezze, non di barocchismi.

Con una leggerezza inversamente proporzionale alla delicatezza del tema, questa estate abbiamo letto “bozze” di questo provvedimento inopportuno. La politica economica è una cosa seria, non si addice a dibattiti estivi innaffiati da spritz e mojito (non credo che il cocktail sia un’esclusiva di Salvini).

Se a chiacchierare sono un ministro e un vice-ministro della Repubblica (nell’ordine, Andrea Orlando e Alessandra Todde, per quanto possa essere incredibile abbinare questi nomi con incarichi di Governo) sembra consentito. Se a farlo è il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si prende anche le intemerate di un commissario europeo, Paolo Gentiloni, che essendo stato presidente del Consiglio dovrebbe avere acquisito qualche sensibilità istituzionale che alcuni degli attuali ministri devono ancora imparare. Per Gentiloni, Bonomi ha usato “toni eccessivi” e ha fatto “polemiche fuori luogo”. E perché?

Difendere le imprese è suo compito specifico. La questione è semplice: si vuole rendere il Paese attrattivo per chi vuole fare impresa, o no? Se si vogliono attrarre investimenti non si deve brandire la clava marxista, prendendola dalla teca dei ricordi di famiglia. Si devono fare riforme. Gentiloni ha avuto un soprassalto di buon senso elencandole: “Riforma della giustizia civile, nuove regole della concorrenza, politiche attive del lavoro”. Appunto, tutto quello che ancora non c’è.

Fonte: Espansione