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In soli quaranta giorni non si cambia il Paese

Anche quest’anno si è provato a riformare il Paese con la legge di Bilancio. A prescindere dagli esiti e ancor prima dai contenuti predisposti nella prima Legge di Bilancio del Governo Meloni, abbiamo assistito ancora a questo sforzo sovrumano, con il quale in meno di 40 giorni si ritiene opportuno ridisegnare il futuro del Paese, compilando la Finanziaria.

A dire il vero qualcuno – pochi – con senso della realtà (e rammentando che il Governo è in carica sì e no da un mese) hanno preferito definire gli interventi della Finanziaria come provvedimenti ponte, in attesa di definire piani e progetti dal prossimo anno. Definire i capitoli di spesa dell’anno successivo è un atto dovuto per incardinare il percorso di gestione di un’azienda o di un Paese. Ma non si riforma un Paese con i capitoli di bilancio. Dovrebbe essere facile da capire.

I media ci mettono del loro per creare aspettative (false), ma ancora troppi politici manifestano il tic delle bandierine. Che ci sia tanto o poco tempo per definire percorsi di riforma sensati (e duraturi: non si può fare una riforma all’anno e nemmeno auspicarla) in molti leader di partito prevale la voglia di intestarsi le discontinuità, sempre più presunte che vere.

La Finanziaria dovrebbe limitarsi a fare ordine nei capitoli di spesa e a verificare che i conti possano tornare, misurando le risorse disponibili, le urgenze improcrastinabili e gli impegni già assunti. Le riforme sono un’altra cosa. Lo si è visto anche durante l’anno e mezzo di Governo Draghi. Non sono bastati diciotto mesi per chiudere la partita del Fisco, né quella della Giustizia, né quella delle Semplificazioni o della nuova Concorrenza. Si è fatto il minimo compito richiesto da Bruxelles per erogare le prime tranche connesse al Pnrr, più per obiettivi di compliance, che per vere novità normative.

Figurarsi come si può imbastire una riforma in quaranta giorni, cioè il tempo che il Governo Meloni ha avuto a disposizione per assumere l’eredità del Governo Draghi e compilare la manovra. In un contesto che definire turbolento è un eufemismo: la guerra inattesa e ormai di lunga durata; l’emergenza energetica che la guerra ha solo acuito, ma che è figlia del grande processo di transizione ecologica imposta dall’Europa; le ferite e i timori della pandemia, rintuzzata, ma non risolta, o comunque con tutte le criticità del Sistema sanitario nazionale; i tassi di interesse esplosi; l’inflazione alle stelle; la recessione alle porte.

In questo contesto si possono progettare riforme in quaranta giorni? L’attesa messianica della Finanziaria finisce poi per deludere tutti e per rendere più incerto il futuro di tutti. Un esempio? Le pensioni. Che fretta c’era di varare il nuovo ritocco che da quota 102 ci fa passare a quota 103? Una bandierina che farà più male che bene, aggiungendo incertezza ai pensionandi impossibilitati a progettare il loro futuro, e aggiungendo costi a un sistema – quello previdenziale – già oneroso di per sé e che deve pagare gli effetti di un’inflazione da anni Settanta.

Una bandierina? Mille bandierine. La Legge di Bilancio ritorna ogni anno a essere il suk parlamentare, dove soddisfare le clientele utili in ogni confronto elettorale. In Italia si vota sempre. Archiviate le politiche ecco le regionali, in uno stillicidio di appuntamenti: in febbraio il Lazio, tra marzo e aprile la Lombardia, in maggio forse il Molise e il Friuli Venezia Giulia. Campagna elettorale permanente? Permanente assalto alla diligenza, con la scusa di dover riformare subito tutto. E per i parlamentari più riottosi si prepara anche quest’anno la versione aggiornata della “legge mancia”. Un gruzzoletto (era un miliardo lo scorso anno) destinato alle piccole spese suggerite dai parlamentari per sfuggire alla tagliola della Ragioneria di Stato.

Fonte: Libero Economia