Go to the top

CHI SI RICORDA DEI FONDI STRUTTURALI EUROPEI? E DEL FATTO CHE NON RIUSCIAMO A SPENDERE?

Antonio Mastrapasqua - CHI SI RICORDA DEI FONDI STRUTTURALI EUROPEI? E DEL FATTO CHE NON RIUSCIAMO A SPENDERE?

Non sono molti ad aver ricordato che l’Italia, in queste settimane, deve occuparsi di altri fondi europei che formalmente non si riconducono al Recovery Plan, ma che gettano un’ombra di incredulità anche su questi. Nei giorni scorsi Francesco Grillo lo rammentava sul Messaggero: “C’è anche l’accordo di partenariato che governerà la spesa dei Fondi strutturali e che per tre quarti saranno spesi nel Mezzogiorno”. Si tratta dei finanziamenti del Programmi operativi regionali (Por) e nazionali (Pon), coperti in buona parte dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e dal Fondo sociale europeo (Fse), sia per quelli in scadenza, per il periodo 2014-2020, sia per quelli di nuova assegnazione, del settennato 2021-2027.

L’ombra è quella di una strutturale incapacità – grande difficoltà, potrebbe essere un eufemismo – a rendicontare e quindi a spendere le risorse disponibili. Problema che in Europa ci pone, da sempre, nelle ultime posizioni. L’Italia è scivolata al penultimo posto (prima era quartultima) nella classifica di spesa dei fondi europei. Questo è il dato che si legge nella Relazione annuale 2019 della Corte dei Conti Europea (European Court of Auditors). La fotografia fatta da Bruxelles, su una “popolazione” europea di investimenti pari a 126 miliardi di euro di cui 28,4 dedicati alla politica di coesione, pone a confronto la performance di spesa degli Stati dell’Unione relativamente agli anni 2012 e 2019, facendo in tal modo una comparazione diretta sulla performance di spesa relativa ai periodi di programmazione 2007-2013 e 2014-2020.

Come ricorda anche il report della Fondazione Ifel, “dal punto di vista della spesa, e tenendo sempre presente la rilevante differenza in termini di dotazione finanziaria tra Paesi, in linea con lo scorso anno si conferma come Stato membro più performante la Finlandia, che con il 69,4% della spesa stacca nettamente tutti gli altri. Il Paese meno performante è la Croazia che si attesta ad un livello di spesa del 31,3%. La media comunitaria della spesa è al 41,1%, e l’Italia si posiziona al di sotto di questo valore, registrando un livello di spesa pari al 35,1% delle risorse programmate. Il valore delle risorse impegnate si attesta, invece, per l’Italia al 73,4%, anche in questo caso registrando un valore inferiore alla media comunitaria che è dell’86,6%”.

Insomma, mentre governo e forze politiche sono impegnati a discutere dei miliardi del Recovery Plan e la maggioranza si è inceppata (apparentemente) sui prestiti del Mes sanitario, le Regioni e alcuni ministeri devono ancora smaltire ben 38 miliardi previsti nei 74 programmi italiani 2014-2020 (Por, Pon e Psr) finanziati da Fondo di sviluppo regionale (Fesr), Fondo sociale (Fse) e Fondo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr). Di questi più di 29 miliardi sono risorse europee. Il resto è cofinanziamento nazionale.

Periodicamente leggiamo sulla stampa economica più autorevole – grande spazio giustamente sul Sole-24 Ore – considerazioni su questa criticità. Se è vero che all’interno dell’Unione europea si è verificato un generale rallentamento della spesa, tuttavia l’Italia presenta una situazione particolarmente critica. Confrontando la situazione italiana con quella degli altri “partner” europei emerge che l’Italia con il suo 30,7% di spesa maturata è in forte ritardo rispetto agli altri Paesi. Sul versante italiano le cause delle difficoltà nella spesa sono note da anni e in sintesi riguardano principalmente un sistema normativo degli appalti farraginoso e complesso, una mancanza di personale con specifica preparazione e relativa formazione nella Pubblica amministrazione, scarsa capacità di programmazione.

Di fronte a questa preoccupante incapacità, secondo Francesco Grillo bisogna che il Paese sappia condividere un’unica idea di futuro, per coordinare entrambe le grandi occasioni di spesa. Solo da questa “idea” possono derivare obiettivi concreti e riforme coerenti che – forse non a caso – latitano anche nell’ultima verbosa (più di 170 pagine!) versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’ex ministro Giovanni Tria lo scriveva pochi giorni fa: “La prima preoccupante sensazione è che troppe pagine descrivano bisogni e non progetti. Abbiamo una lunga sequenza di ambiti di intervento e di corrispondenti affermazioni che si investirà in questi ambiti. La seconda preoccupante sensazione è che l’allocazione di risorse alle sei missioni previste dal piano, e alle componenti di cui esse si compongono, non derivi da una stima di costi progettuali e da una selezione dei progetti in base al rendimento atteso in termini di benefici e risultati attesi, sia relativi al singolo progetto sia derivanti dal contributo al rendimento dell’intero piano in termini di crescita. La sensazione è che si tratti più che altro di vincoli di spesa, cioè di una ripartizione di risorse disponibili. In altri termini, si definisce la copertura finanziaria”.

Ma il problema non è la copertura finanziaria – mai come oggi sembrano cospicue le disponibilità finanziarie – ma la capacità di progettare e di spendere, essendo in grado di rendicontare tutto, nel dettaglio, per essere certo di incassare i flussi di denaro promessi.